“Pagare le tasse è una cosa bellissima”. “La pressione fiscale(, in Italia,) è troppo (alta)”. Le due tesi-affermazioni sembrano contraddirsi, ma non è così. Perché pagare le tasse è “bello” quando avviene nella giusta misura, e questo dipende da ”ciò” – il valore, e lo scopo - per cui le si paga. Non tanto, o non solo, quali “servizi” vengono effettivamente erogati, e come, ai cittadini; perché, come abbiamo già avuto modo di suggerire, lo Stato non è semplicemente un congegno (che del resto funziona tanto meglio quanto più riusciamo ad attribuirgli questa ulteriore “dimensione” che ora vediamo) predisposto per la soddisfazione dei nostri “bisogni” (materiali): bensì la forma, il frutto e l’organizzazione del nostro stare assieme; della nostra decisione di “fare un tratto di strada” in comune. E, dunque, pagare le tasse è bello quando lo è (“altrettanto”) ”stare” (agire, quotidianamente, per il bene. Di tutti) gli uni con gli altri; quando la “strada” (i passaggi che avremo “deciso”, perché ne discenderanno, di compiere per raggiungere l’orizzonte che ci saremo dati) che percorriamo ci stimola, quando la “meta” (appunto, il nostro – possibile; alto - obiettivo comune) verso la quale andiamo è, per ciascuno di noi, qualcosa che giustifica e, anzi, dà senso e valore - motiva - il nostro impegno quotidiano e, insieme, quel “risparmio” - che è ciò in cui consistono le tasse in un Paese che che abbia una – vera – Politica che svolga il proprio mestiere: una quota (“trattenuta” dalle nostre “spese”) che, tutto sommato, “investiamo” per l’(esclusivo) bene e nell’interes- se della famiglia, per poter “mettere in cassaforte” il futuro dei nostri figli – del guadagno del nostro lavo- ro poi “devoluto” alla ”organizzazione” (comune).
Quel grande architetto che risponde al nome di Renzo Piano, ”boccia” l’Altare della Patria perché, nelle sue dimensioni mastodontiche, con la sua prominenza, contraddirebbe il principio stilistico per cui l’arte deve suggerire, ma senza invadere il campo (visivo, e non solo) delle persone; senza “straripare”. Ma la valutazione di Piano, che tecnicamente non abbiamo, in questo momento, la presunzione di saper criticare, tradisce ciò a cui si è ridotta la nostra idea di Stato e, quindi, di nazione: una (fredda) architettura (appunto!) di servizi, uffici e fondale di uomini politici politicanti autoreferenziali impegnati nel teatrino del dibattito (?) pubblico (?) che rappresentano, però, qualcosa di (burocraticamente, tecnicamente) estraneo; qualcosa che, in fondo, ci riguarda, sì, ma non più di quanto ci riguardi, ad esempio - scrisse una volta Aldo Grasso – “lo show del sabato sera di Raiuno”.
E, invece, no; invece, come ci ricorda il presidente Napolitano, “lo Stato siamo noi”. E il Vittoriano non è “invadente”; semplicemente rappresenta, “plasticamente” (ma solo perché le due fiamme che ardono sull’altare non corrispondono più ad un’Anima della nazione che abbiamo smesso di avvertire dentro di noi), fisicamente, quale sia il nostro (possibile) respiro: quello di un grande Paese - oggi proiettato, ma solo ”dopo” che si sarà lui per primo rialzato in piedi, nella dimensione europea e, poi, mondiale - dotato di una (potenzialmente) grande economia, e già ripetutamente capace di scrivere “pezzi” (considerevoli) di Storia.
Potremo tornare a farlo quando avremo potuto capire che pagare le tasse è, effettivamente, una cosa bellissima; così bella che, per non andare “sprecata”, sarà limitata ad uno (stretto) necessario che diminuirà tanto più non, quanto più proseguiremo nell’”abbandono” (“ideologico” e materiale) dello Stato; ma, al contrario, quanto più torneremo a farlo a vivere.
Perché quei signori che non sono stati capaci di trovare loro una soluzione, com’era nella – esclusiva – loro funzione, stanno ancora là seduti ai “posti di comando” aspettando, (taluni -) con un malcelato ghigno, che la società civile – perché questo, sono i professori – abbia finito di rimettere a posto le cose, per poi riprendere (prevedibilmente, se sarao loro a rimanere) ad “offrirci” il (solo) ”spettacolo” a cui ci hanno preparato, e poi “abituato” (?), negli ultimi trent’anni?
Il “cammino” verso un orizzonte che solo questo giornale ha avuto la forza di cominciare a tratteggiare, tornerà ad essere appassionante solo quando avremo ritrovato una guida degna di stare alla testa di questa carovana che, nonostante tutto, può arrivare (ancora. Una volta) più lontano – e prima - d’ogni altra.
E allora, vedrete, ci saremo anche dimenticati, di stare continuando a pagarle, le tasse.